venerdì 12 maggio 2017

Immigrazione ed emigrazione di ieri e di oggi. Dove sta la differenza

L’approdo in Italia  di centinaia di migliaia di “migranti” clandestini provenienti da vari Paesi dell’Africa e dell’Asia, quasi sempre senza documenti, scaricati sulle coste italiane dalle navi di “salvataggio” delle ONG, Organizzazioni non governative che li prelevano da gommoni in voluta avaria nel Mediterraneo, portati da trafficanti di esseri umani provenienti dalla Libia, è l’argomento di maggior attualità in Italia; anche perché a queste centinaia di migliaia di profughi e/o clandestini poi l’Italia deve provvedere con fondi del Bilancio nazionale per sostenere gli alti costi dell’accoglienza, del mantenimento per anni in centri appositi in attesa di identificazione e stabilire se hanno o no diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Quindi si dovrebbe poi provvedere al rimpatrio dei non aventi diritto (la stragrande maggioranza); rimpatrio che si rende di fatto impraticabile per gli alti costi, e anche perché i paesi di origine, o altri Stati europei, non li vogliono, e perché nel frattempo molti si rendono irreperibili, o cercano di scappare altrove, o si imbucano nel mare magnum della clandestinità, tra lavoro nero, sottopagato, o tra le spire del caporalato, o restano parcheggiati sine die in Centri di accoglienza  su cui lucra la criminalità organizzata (vedi inchieste su Mafia capitale, Cara di Mineo e di Isola Capo Rizzuto).
Molti cittadini e alcune forze politiche di opposizione stanno contestando e protestando contro questo anomalo ed esorbitante fenomeno, che nasce, si espande, prospera confluisce in gran parte nell’illegalità e rende impossibile una reale integrazione, sia sul piano sociale che economico, di tanti “migranti”, con una situazione nazionale di altissimo deficit di bilancio e diffusa disoccupazione ( e con una densità media di popolazione di circa 206 abitanti per Kmq, una delle più alte in Europa).
Qualche magistrato sta conducendo indagini per fare chiarezza su questa situazione e vedere se non ci siano interventi illeciti anche da parte delle stesse ONG che favoriscono questo continuo traghettamento di clandestini sulle nostre coste, in atto ormai da anni e sempre crescente. E’ evidente che se c’è chi mette volutamente, e a fini di lucro, migliaia di persone  in situazione di pericolo in mare, poi  di fatto si costringono altri a impegnarsi nel salvataggio per evidenti ragioni di umanità e secondo le leggi del mare; e se questi altri , nel caso le navi delle ONG, stazionano stabilmente  sul limite delle acque territoriali in attesa dei candidati al naufragio, di fatto completano e favoriscono l’opera dei trafficanti, che ritornano a carico pieno ogni giorno.
Molti si chiedono anche se questo debba essere il compito delle organizzazioni non governative, alcune di recente istituzione e altre nate decenni fa con lo scopo  originario di prestare assistenza sanitaria o economica alle popolazioni dei paesi sottosviluppati “a casa loro”; e per questo ricevevano e ricevono contributi da singoli privati e da  istituzioni  pubbliche. Ora ci si chiede il perchè di questo recente  loro costosissimo interventismo su navi nel Mediterraneo per favorire una trasmigrazione di masse di diseredati che non risolve i problemi degli Stati all’origine (conflitti, carestie, miseria, sovrappopolazione, degrado..) e ne crea tantissimi al punto di arrivo.
Ma a tutti quelli che sollevano dubbi si sta opponendo una levata di scudi di autorità di governo, dal presidente della Repubblica al Papa, a religiosi, scrittori e giornalisti che accusano di strumentalizzazione politica antigovernativa, razzismo, fascismo, o quantomeno di mancanza di solidarietà e umanità quanti non plaudono all’accoglienza indiscriminata di tutti e a questo “salvataggio di vite” programmato e organizzato come una catena di montaggio, che peraltro non riesce ad evitare la morte in mare di migliaia di questi deportati , e le vessazioni, torture e sfruttamento di cui sono oggetto  in Libia e nei lunghi viaggi  dai luoghi di partenza.
Per giustificare l’obbligo morale alla accoglienza ci si richiama sempre al passato e al fatto che anche noi italiani siamo stati emigranti, mettendo sullo stesso piano l’emigrazione dei “nostri” nella seconda metà dell’800 e inizio ‘900 e queste migrazioni forzate in atto da alcuni anni verso l’Italia e l’Europa, che per certi aspetti sembrano più una deportazione di schiavi che una normale emigrazione come si è sempre registrata nella storia dei popoli.
Ma si sta facendo un grosso errore di interpretazione e valutazione, sia della storia che del presente, perché i due fenomeni non sono comparabili e presentano solo in parte aspetti comuni, ma ne presentano tanti altri totalmente diversi, soprattutto nelle modalità e nel fatto che nessuno Stato in passato si faceva carico del mantenimento degli immigrati, che dovevano arrangiarsi a mantenersi da soli col loro lavoro, se e quando ce ne era la possibilità.
Va ricordato infatti che i nostri nonni che emigrarono per sfuggire a condizioni di miseria e di fame in Italia, partivano (con o senza famiglia) con il passaporto rilasciato dalle autorità, avevano un mestiere alle spalle, erano contadini, muratori, artigiani, e andavano in paesi poco popolati e in espansione, dove c’erano richieste e tante possibilità di lavoro, nelle fattorie, piantagioni, miniere, edilizia, nuove strade, ponti, ferrovie da costruire; erano animati dalla volontà di costruirsi una nuova vita nel rispetto delle leggi locali  e volevano integrarsi nel nuovo mondo. Restavano se trovavano lavoro e si mantenevano quindi da soli, nessuno Stato li manteneva gratis, se non in certi casi, per i primi giorni; o, in altri casi, gli si anticipava il pagamento del viaggio, da restituire. Ma poi se non riuscivano a trovare lavoro stabile o se la situazione dello Stato di arrivo non offriva più possibilità per sopravvenute crisi economiche interne, dovevano andarsene altrove e/o tornare in Italia, pagandosi il viaggio di tasca propria o con l’aiuto di parenti se erano rimasti in miseria.
Emigrazione e immigrazione erano comunque sempre regolamentati, in partenza e in arrivo, da ogni Stato, secondo le rispettive esigenze di manodopera e la situazione economica in atto.
Peraltro, anche tutti gli italiani di oggi che emigrano, non vanno a farsi mantenere da nessuno e nessuno li mantiene; ma si mantengono da soli se e quando trovano lavoro.
Questa follia attuale dell’accoglienza indiscriminata con la pretesa che lo Stato italiano si faccia carico di migliaia di persone senza documenti e senza alcuna meta definita, scaricate a getto continuo sulle coste italiane, in nome di una “solidarietà” astratta, predicata quasi sempre da personaggi autorevoli ben pagati e protetti, e imposta a cittadini comuni su cui poi di fatto ricade il peso dei costi economici e sociali di questa accoglienza, non sarà sostenibile a lungo.
Se poi ci aggiungiamo il fatto che la maggior parte dei “migranti” attuali sono di pelle nera e anche in buona parte fedeli di religione islamica,  la percezione più diffusa è che si stia  praticando una  forzata immissione di gruppi di  persone totalmente estranee al tessuto sociale di paesi e città dove vengono distribuiti e collocati (o “parcheggiati”) . Di conseguenza  è comprensibile che queste immissioni siano vissute con ostilità o diffidenza reciproca; quando non sconfinano in generalizzato rifiuto e  xenofobia. Senza contare le ovvie strumentalizzazioni che del disagio fanno i partiti di opposizione (che altrettanto ovviamente puntano ad accrescere il proprio consenso popolare).
E’ abbastanza comprensibile che l’integrazione di immigrati in una comunità locale sia più facile e attuabile se c’è affinità culturale, di costumi di vita, e di fede religiosa. Il “multiculturalismo” che tanti sembrano  considerare come un obiettivo raggiungibile e auspicabile  per poter vivere tutti  insieme in pace nella diversità, dove è già stato messo in atto, soprattutto  nei confronti degli immigrati di religione islamica, non ha dato i frutti sperati, creando spesso situazioni di disagio sociale, incomunicabilità, ghettizzazioni, enclave dove si osserva la legge islamica prima di quella nazionale, con manifestazioni di ribellione fomentata dall’integralismo religioso, sconfinante in tanti casi in atti di terrorismo compituti da giovani  discendenti da immigrati di decenni fa, tutt’altro che ben integrati, ma animati da odio per l’Occidente anche quando messi in condizioni di vita accettabili. Vedi quanto accaduto in Belgio, Francia, Germania e Inghilterra, ma anche in Danimarca o Svezia.
Servirebbe quindi da parte dei governi, italiano ed europei, un approccio più razionale e realistico, al di fuori degli opposti estremismi dei “buonisti” e di “cattivisti”, per frenare questo esorbitante fenomeno migratorio all'origine e ricondurlo entro binari di legalità e limiti di sostenibilità, con gestione e bilanci  alla luce del sole, nell’interesse di tutti, migranti, cittadini italiani e ONG.
 
Così come  si è proceduto finora, a beneficiare di questa anomala immigrazione sono stati scafisti e trafficanti di esseri umani "a monte" , e criminalità organizzata  o improvvisata localmente "a valle". A pagare  sono gli stessi migranti, prima per il pericoloso e illusorio viaggio e poi  per l'assoluta incertezza sulla loro sistemazione presente e improbabile integrazione futura. Infine, pagano  gli italiani, come cittadini contribuenti dello Stato per gli alti costi  di "salvataggi", accoglienza  e mantenimento; e, in molti casi pagano anche come donatori volontari  di  contributi alle ONG per compiti impropri che non sono quelli originariamente stabiliti, dichiarati e propagandati. Per non parlare degli squilibri che si sono verificati nel mondo del lavoro e qualche disagio sociale in più sul piano della sicurezza.

*** Per chi avesse tempo e voglia di saperne di più sull’emigrazione di un secolo fa, riporto qui alcune pagine di una mia ricerca di anni fa confluita nel libro “I Mastellari da Argile alle Americhe. Storia di Filippo e Amadeo, un pittore e un muratore che varcarono l’oceano in cerca di fortuna” (leggibile integralmente al link https://magdabarbieri.wordpress.com/category/libri/
Da pag. 25-29
10-emigranti in attesa al porto"Come già accennato in capitolo precedente, va ricordato che in quegli anni era in atto un forte fenomeno migratorio dall’Italia (e non solo) verso il continente Americano, nord, centro e sud. Secondo una statistica pubblicata su Internet1, che si basa su fonti ISTAT, tra il 1886 e il 1890 emigrarono dall’Italia un milione e 110 mila persone, di cui 871 mila uomini. Notevole fu anche la “fuga” dall’Emilia e da Bologna e provincia, anche se, rispetto ad altre regioni, il fenomeno fu meno consistente. Stando ai dati pubblicati nello stesso sito sopra citato, nel ventennio tra 1880 e 1900, dall’Emilia emigrarono in media 3 abitanti su 1000, mentre dal Veneto ne emigrarono 20,31, dalla Basilicata 16,52, dal Piemonte 9,94. In cifre assolute, è scritto che dall’Emilia Romagna emigrarono 220.745 persone, tra il 1876 e il 1900, e altre 469.429 tra il 1901 e il 1915.  ……..
L’emigrazione verso il continente americano non fu fenomeno solo italiano. Risulta infatti che tra il 1892 e il 1924, più di 22 milioni di immigrati, provenienti in gran parte dall’Europa, ma anche da altri continenti, sbarcarono ad Ellis Island, il punto di approccio, raccolta e smistamento presso New York, utilizzato soprattutto da chi era diretto verso gli Stati del nord, Usa e Canada, ma anche da chi voleva reimbarcarsi poi e dirigersi verso quelli del Centro o il Sud America.
Genova e Napoli erano i porti italiani da cui partivano in prevalenza gli emigranti provenienti da tutte le regioni, diretti verso le Americhe, su navi a vapore e bastimenti delle maggiori compagnie di navigazione, che, insieme alle Agenzie Marittime, e con l’aiuto di agenti, subagenti, mediatori e sensali locali, svolgevano una intensa azione di propaganda per indurre all’emigrazione masse di poveri contadini, braccianti e muratori disoccupati o male occupati.
E’ stato scritto che il Brasile nel 1895 disponeva in Italia di una rete formata da 34 agenzie e più di 7.000 sub-agenti che giravano le fiere di paese con compiti di reclutamento2.
7-Cartina centroAmerica politica a coloriAlla Prefettura di Bologna nel solo anno 1889 furono diverse le domande presentate per ottenere la licenza di Sub-agente con autorizzazione ad operare nella provincia di Bologna. Tale licenza era diventata infatti obbligatoria in base alla prima legge sull’emigrazione, emanata giusto il 30 dicembre 1888 dal governo Crispi. Licenza generalmente concessa, e poi solo in qualche caso revocata o sospesa per inadempienze o scorrettezze accertate
3. Le Agenzie che risultano rappresentate, stando alle carte bolognesi, erano quelle della “Società Unione marittima Italiana”, la “Navigazione Generale Italiana”(Società riunite Florio e Rubattino), l’”Agenzia Generale Marittima”, la “Società La Veloce – Navigazione Italiana a vapore”, la “Ditta fratelli Gondrand”, la “Parodi Ernesto di Nicolò – Conservatori del mare”, con sedi centrali generalmente a Genova e Agenti e Sub-agenti di Bologna, Crevalcore, S. Agata o nella Romagna.
Il Brasile fin dal 1867 aveva promulgato una legge a favore dell’immigrazione, facendosi carico del viaggio, per avere manodopera disponibile da impiegare nelle grande piantagioni di caffè dei fazendeiros, proprietari di grandi latifondi o aziende. Ma di emigranti ne arrivavano così tanti da rendere impossibile il loro collocamento e i nuovi arrivati, come tanti prima di loro, versavano “nella più squallida miseria ” e alla mercé di epidemie di febbre gialla che causava grande mortalità. Così scriveva infatti il Ministero dell’Interno in una Circolare del 7 marzo 1889, mettendo in guardia chi volesse partire. Anzi si allegavano telegrammi del Capo del Governo, Crispi, o del ministro dell’Interno, che vietavano ad Agenti e Sub-agenti di reclutare altri emigranti per il Brasile e intimavano ai prefetti di sospendere o ritardare il rilascio dei passaporti per quella destinazione (Porto Alegre o San Paolo). Disposizioni che devono essere state ignorate o sospese poco dopo, perché nel 1890 di richieste e di concessioni di passaporti per il Brasile ne abbiamo viste tante.
A braccianti e contadini i Governi di altri paesi del Centro o Sud America e gli Agenti delle compagnie di navigazione promettevano il rimborso posticipato delle spese di viaggio e persino l’assegnazione gratuita di appezzamenti di terra (Uruguay), per attirarli a bonificare terre aride e impervie o per lavorare alla costruzione delle ferrovie allora in grande sviluppo, in climi malsani e situazioni sanitarie infestate da epidemie. Gli archivi sono pieni di carteggi in proposito e di circolari del ministro dell’Interno, Berti, ai Prefetti perché diffondessero le informazioni sulle situazioni reali di quei paesi e mettessero in guardia dai contratti-capestro degli Agenti delle compagnie di navigazione o degli impresari di grandi lavori ferroviari. Raccomandazioni spesso inascoltate.
Al contrario di detti Stati del Centro e Sud America, gli Stati Uniti, nel 1885, avevano invece emanato una legge che vietava a privati, Compagnie, Associazioni o Corporazioni di pagare anticipatamente il viaggio o stipulare anticipatamente un contratto di lavoro agli emigranti, per scoraggiare l’emigrazione, già rilevantissima in USA, più e prima che altrove, e per scoraggiare appunto anche il dilagare dei succitati contratti – capestro utilizzati dagli speculatori.
Ma la confusione era grande, e le leggi poco conosciute e poco o mal applicate.
Riportiamo qui, a titolo di esempio, il testo di una circolare del ministro dell’Interno, L. Berti, datata 26 luglio 1889, diretta a Prefetti, Sotto Prefetti e Sindaci del Regno, e con oggetto l’emigrazione in
Chilì (il Cile).
16-Circolare Ministro Berti per Chilì.1889Partono con qualche frequenza per il Chilì comitive numerose di operai italiani messi assieme da speculatori sulle piazze di Genova, di Marsiglia e di Bordeaux con promesse di sicura occupazione ed alte mercedi in lavori di strade ferrate, miniere e simili. Ma arrivati a destinazione i nostri braccianti incontrano tante e tali difficoltà a trovare lavoro, che finiscono per abbandonare quel paese ridotti a male dagli stenti e dalle privazioni e per andare in cerca di migliore ventura in altre regioni.
Il governo del Chilì è benevolo per verità verso gli emigranti; li ricovera e mantiene a sue spese per i primi quindici giorni dall’arrivo, durante i quali devono cercarsi un collocamento. Ma siccome mancano i lavori pubblici e le imprese di colonizzazione, ed i privati preferiscono per ragioni di razza e di lingua gli operai spagnoli e portoghesi e non curano i nostri, questi, licenziati dai ricoveri governativi, si trovano alle prese con la fame.
I nostri operai devono quindi diffidare di coloro che li eccitano ad emigrare al Chilì, perchè l’emigrazione è, a quella volta, almeno per ora, disastrosa.
Si prega di rendere pubbliche queste notizie nei soliti modi”
Circolari del Ministero degli Interni e Bollettini del Ministero degli Affari Esteri con informazioni sulla situazione dei vari Paesi esteri e raccomandazioni simili si susseguivano più volte ogni anno4.
Ciò nonostante, le richieste di passaporto alla questura di Bologna per espatriare furono tante, anche se non quantificabili per mancanza di dati esatti. E ci furono anche tanti casi di rimpatrio, perchè il “sogno americano” si era rivelato un incubo. Tra i carteggi letti in archivio nel fondo della Prefettura5, citiamo solo il caso sfortunato di un giovane di S. Agata bolognese, Enrico Canè, che, nel 1890 in Brasile, trovandosi in “condizioni critiche”, chiese aiuto alle autorità per rientrare in patria e dovette farsi mandare i soldi dal padre: 240 lire, cambiate in sessantamila reis, moneta brasiliana, per pagare il piroscafo Adria da Rio de Janeiro a Genova; e occorrevano altri 23.320 reis per rimborsare altre spese colà sostenute.…..
pag. 18-21
Del resto doveva essere molto improbabile che (un emigrato argilese, ndr) potesse mettere da parte dei risparmi da inviare in Italia se la situazione in Brasile in quegli anni era quella descritta dai Bollettini del Ministero degli Affari Esteri e dalle circolari del Ministero dell’Interno.
Consta al regio governo – era scritto nell’estratto dal Bollettino del novembre 1897 con“Notizie concernenti l’emigrazione italiana”che taluno tenta di raccogliere, nel regno, un certo numero di famiglie agricole per avviarle, per la via di Rio de Janeiro, allo Stato di Espirito Santo, nel Brasile. Ricordiamo ai nostri contadini che vige tuttora il divieto emanato dal regio ministero dell’interno nel 1895, per cui gli agenti italiani non possono fare operazioni di emigrazione per l’Espirito Santo. Ma oltracciò da tenersi in conto che le condizioni degli emigranti italiani in detto Stato sono assai critiche, e che essi non si sentono del tutto tranquilli dopo i dolorosi fatti che cagionarono, in San Giovanni Petropolis, la morte di vari nostri connazionali ed il ferimento di altri.
Bisogna dunque che gli agricoltori italiani resistano a qualunque lusinga e che rifiutino ogni proposta, che loro venisse fatta per indurli ad emigrare alla suddetta regione”
Nel Bollettino del Ministero degli affari Esteri” del maggio 1898, riguardo all’emigrazione a San Paolo in Brasile, secondo il rapporto del Cav. L. Gioia, regio Console Generale, questa era la situazione:
Per l’aggravarsi della crisi economica, prodotta dal ribasso sul prezzo del caffè e dal deprezzamento continuo della carta-moneta, si rende ogni giorno più difficile per gli emigranti nuovi arrivati di trovare una collocazione qualsiasi che procuri loro non l’agiatezza, ma i semplici mezzi di sussistenza. Per motivi di economia vennero sospesi parecchi dei grandi lavori dello Stato, dei municipi e delle società ferroviarie, le imprese private si limitano al puro necessario, le costruzioni urbane, prima numerose, ora son divenute rare; i banchi, le case di commercio, gli uffici in generale non accettano nuovi impiegati e non sostituiscono gli uscenti con altri; infine, l’incertezza dell’avvenire e la sfiducia si ripercuotono in tutti i rami del commercio e delle industrie.
Nelle campagne le condizioni non sono migliori, giacchè non pochi dei proprietari si trovano dissestati nei loro interessi, ed i coloni non possono, se non con molte difficoltà, ottenere almeno una parte di quanto loro dovuto. Tutto ciò costituisce attualmente una situazione sfavorevole per chi voglia tentare la fortuna in questa regione, e perciò è da sconsigliare assolutamente di emigrare a chi, per lo meno, non eserciti un mestiere determinato, come di muratore, falegname, calzolaio, sarto, cuoco. ecc.. o non abbia qui qualche parente od amico cui appoggiarsi per essere sovvenuto durante alcuni mesi, poiché si esporrebbe ad andare incontro a sofferenze superiori a quelle cui egli crede di sfuggire lasciando l’Italia.
L’unità monetaria che è il mil reis, del valore, col cambio pari, di lire 2,84, vale attualmente 60 centesimi circa. Un discreto operaio può guadagnare in media cinque mila reis al giorno, cioè circa lire 3, mercede che, dato il caro degli alloggi e di non pochi oggetti di prima necessità, rappresenta un compenso meschino, impari ai più semplici bisogni di vita.
In peggiori condizioni poi si trovano coloro che fingendosi agricoltori, vengono gratuitamente in questo Stato coll’immigrazione ufficiale. Quivi giunti ed internati nelle Fazendas, tostochè vengono riconosciuti inetti ai lavori agricoli, spesso vengono colpiti da gravi infermità per le dure condizioni d’esistenza e di lavoro cui devono assoggettarsi, essi sono costretti a passare attraverso le più penose peripezie, senza aver neanche la sicurezza di poter far ritorno in quella patria abbandonata tanto leggermente e che, dopo, inutilmente rimpiangono”.
Sull’emigrazione nello Stato di Minas Geraes (così chiamato per le sue importanti miniere) era scritto nel Bollettino del Ministero degli affari esteri del settembre 1900 – Rapporto del cav. E. Negri…regio console in Juiz de Fora
Nella mia breve permanenza in Bello Horizonte, nuova capitale di questo Stato, ho dovuto purtroppo constatare le deplorevoli condizioni economiche della maggior parte dei nazionali, non solo operai, ma anche di quelli appartenenti alla classe più colta, come architetti, intraprenditori di lavori, ed altri. Per causa dell’inevitabile periodo di sosta dopo terminata la costruzione del primo nucleo della incipiente città ed a motivo della strettissima economia cui si vide ridotto il governo di Minas per ristaurare le sue finanze, non si trova attualmente alcun lavoro per procurare qualche guadagno agli italiani, la cui situazione diviene di giorno in giorno più critica.
Persone di civile condizione, giunte pochi anni sono dall’Italia con un discreto capitale, si vedono arrivare al punto di chiedermi il viaggio gratuito per rimandare nel regno le proprie famiglie… E’ perciò necessario portare questo stato di cose a notizia dei sindaci del regno, affinché con opportuni consigli risparmino ai loro amministrati la sventura di emigrare a Bello Horizonte ed, in generale, allo Stato di Minas Geraes, se non abbiano la precisa sicurezza di avere qui una immediata e ben rimunerata occupazione”.
….
Lo scontro con la nuova realtà è molto forte, le difficoltà sono tante, dal senso di smarrimento al problema della ricerca del lavoro, dal costo della vita alla disillusione del viaggio. Le illusioni o le speranze svaniscono, pervade il pentimento e sopravviene la decisione del ritorno…ma “il rimpatrio non si può concedere”.
E ancora, sull’emigrazione al Parà (Brasile) – Dal Bollettino del Ministero degli affari esteri, settembre 1900 .Da qualche tempo giungono qui artisti di canto…Giungono pieni di speranze, perché si è detto loro che il clima di questo Paese è sano, la vita facile ed il guadagno grande. Che avviene poi? Appena sbarcati si accorgono che le cose stanno in ben altro modo; ma oramai è tardi e bisogna che rimangano. A certi artisti si disse che bastano tre lire al giorno per vivere, mentre la loro paga era di 300 franchi mensili; la verità è, invece, che qui, per vivere modestamente, senza privazioni, non sono sufficienti 20 mila reis al giorno (circa 25 franchi)… Il vitto, poi, è carissimo… e poi l’acqua si paga e la lavatura e stiratura d’una camicia costa mille reis.
Il lavoratore, l’operaio scende dal piroscafo pieno di salute, di coraggio e d’illusioni: ma poco dopo piange amaramente, imprecando a chi l’ha indotto ad abbandonare il proprio paese. Dopo aver consumato i pochi risparmi portati con sé, va al regio vice consolato per chiedere un aiuto, ed il rimpatrio, che là non si può concedere. L’anemia propria dei paesi equatoriali, s’impossessa, dopo tante privazioni, del suo organismo, cosicché perde presto l’energia morale o la salute”.
Spesso la colpa è della cattiva informazione, si diffondono voci mendaci di opportunità di lavoro in un Paese e la verità si apprende solo una volta arrivati alla meta. In questi casi utilissima è la diffusione dei comunicati dei Bollettini ufficiali, che informano sulle reali opportunità”.

Ciò nonostante il flusso migratorio di italiani verso il Brasile fu ancora rilevantissimo: evidentemente l’esca del viaggio di andata gratis, garantito da una legge del governo brasiliano del 1867, aveva un potere di attrazione che superava qualsiasi altra remora. In particolare, fra il 1892 e il 1910, 70.000 italiani emigrarono nel Minas Gerais. La maggioranza erano contadini dell’Emilia-Romagna, Veneto, Calabria e Campania…..
Eppure i racconti di alcuni emigrati in precedenza riferivano di difficoltà e condizioni di vita disumane: malattie, insetti parassiti sempre presenti e insidiosi, serpenti velenosi in agguato per chi girava scalzo, guadagni miseri. Tanti avrebbero voluto tornare ma non ne avevano i mezzi. Altri emigrarono ancora verso l’Argentina che pareva più vivibile e accogliente.
……
Va ricordato che nel 1901 fu emanata una legge che regolamentava l’emigrazione, soprattutto riguardo alle condizioni di trasporto sulle navi a vapore, per assicurare maggior controllo per l’igiene e le condizioni di vita e per contrastare truffe e raggiri, purtroppo frequenti, a danno dei poveri emigranti, compiuti da agenti e sub agenti senza scrupoli.
Oggi gli oriundi italiani in Minas Gerais sono 2 milioni di persone (10,6% della popolazione), di cui 1 milione vive nella città di Belo Horizonte e il resto soprattutto nel sud dello stato. E sono quelli che “ce l’hanno fatta”, sia pur a prezzi di sacrifici enormi.  ……."

*** NB Pagine estratte dal libro di Magda Barbieri “I Mastellari da Argile alle Americhe”
NOTE MINIME
2Primo Silvestri“L’emigrazione dell’Emilia Romagna in Argentina” vol. IX, 1992, pag. 11, fonte Angelo Trento “Do outro lado do Atlantico, un seculo de imigracao italiano no brasil”. Istituto Italiano di cultura di San Paolo-Istituto Cultural Italo-Brasileiro. Ed. Nobel 1989, San Paolo-Brasile
3A.S.Bo. Prefettura. Gabinetto n. 703 – a. 1889/ e n. 746 a. 1890
4Tutti i bollettini e le circolari citate sono presenti in A.C. Argile nei fascicoli Esteri delle annate indicate nel testo
5A.S.Bo Prefettura. Gabinetto a. 1890, n. 746

PS. Va ricordato infine che la popolazione di tutto il Continente America,  Nord, Sud e Centro, è frutto per la stragrande maggioranza della emigrazione - colonizzazione  iniziata dopo la sua scoperta nel 1492, e proveniente da Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia, Italia e altri Stati europei e asiatici, integrate anche con la  massiccia importazione di schiavi dall’Africa. Le popolazioni autoctone o indigene, già molto ridotte e divise in tribù spesso in lotta tra loro,  furono ulteriormente decimate o confinate in piccole enclave, e solo in parte via  via nel tempo integrate nel tessuto sociale  costituito.

martedì 28 marzo 2017

Non cancellate i Comuni!


In relazione allo studio di pre-fattibilità avviato dai Comuni di Castello d'Argile, Pieve di Cento, Galliera e San Pietro in Casale per l'eventuale fusione dei suddetti Comuni, come cittadina di Castello d'Argile e studiosa di storia locale, già consigliere comunale e assessore dal 1995 al 1999, desidero esprimere la mia più profonda contrarietà a tale ipotesi di fusione.
La mia contrarietà nasce da valutazioni di carattere istituzionale, simbolico e pratico, di fruibilità e di controllo dei servizi pubblici da parte dei cittadini e dei propri rappresentanti.
Sul piano istituzionale sostanziale e simbolico considero innanzitutto la cancellazione dell'autonomia comunale una grave e irreversibile privazione della secolare identità e rappresentatività delle comunità locali, non giustificata da alcuna esigenza sociale, economica e di relazione.
Cancellare i Comuni significa cancellare la storia d'Italia e il fondamento dell'organizzazione territoriale fissato dalla Costituzione democratica italiana.

UN CENNO DI STORIA
Mi pare opportuno ricordare che le comunità locali di Argile e Mascarino, pur presenti e attive e documentate da oltre un millennio, furono ridotte ai minimi termini e in assoluta povertà nei secoli dal 1400 agli inizi del 1800, in quanto private di ogni autonomia politica ed economica e di rappresentanza locale, in condizione di totale dipendenza dal Senato e dal Legato pontificio di Bologna.
Solo dopo l'istituzione del Comune di Castello d'Argile nel 1828 (dopo la breve esperienza della prima “municipalità” napoleonica e alcune brevi diverse aggregazioni subito tramontate), con Venezzano incorporato come frazione, e una prima rappresentanza di Consiglio comunale locale, il paese ha cominciato a crescere, come popolazione, come attività economiche e con nuove case e botteghe; crescita poi via via consolidata e sempre aumentata nel periodo seguito all'Unità d'Italia, con amministrazioni comunali locali gestite da Sindaci, Giunte e Consigli comunali che, pur in situazioni di difficoltà generali nazionali, e anche tra lotte e contrasti interni, maggioranze e opposizioni, hanno sempre saputo e voluto far crescere il paese, a cominciare dalla importante costruzione del primo Municipio nel 1874, con antistante Piazza, per dare finalmente un più efficace servizio pubblico, vicino ai cittadini, concreta visibilità e valore simbolico all'istituzione Comune. La nuova Costituzione della Repubblica Italiana, in vigore dal 1948, ha poi disegnato in modo esemplare, sulla falsariga di quella disegnata nel 1861 da Marco Minghetti, le ripartizioni territoriali dello Stato in Regioni, Province e Comuni, con relative distinte funzioni amministrative decentrate (Titolo V).

Oggi il nostro Comune ha 6.500 abitanti (popolazione raddoppiata negli ultimi decenni) ed è dotato di buoni servizi pubblici locali, di trasporto e in buon collegamento con servizi sovracomunali come gli ospedali e con la città capoluogo Bologna; servizi che necessitano certamente di miglioramenti e ampliamenti e miglior gestione, anche a seguito dell'incremento di popolazione. Ma non ha alcun interesse o bisogno di rinunciare alla propria autonomia comunale, al proprio nome, al proprio Sindaco e Consiglio, per annullarsi in uno strano accorpamento artificioso con altri 3 comuni, che determinerà un inevitabile conseguente spostamento altrove della sede principale decisionale, una ridotta rappresentanza locale subordinata ad altre rappresentanze interessi e decisioni altrui, e un ulteriore allontanamento dei cittadini dalla nuova istituzione, minor interesse alla partecipazione alle elezioni amministrative e alla elezione di un sindaco che non sarà un concittadino. Difficile che in tali condizioni di subordinazione, scollamento e lontananza si possa sperare in un miglioramento dei servizi locali.

ACCORPAMENTI TERRITORIALI DEL PRESENTE E DEL PASSATO, FATTI E CANCELLATI

Il Comune di Castello d'Argile fa già parte, insieme ad altri 7 Comuni del circondario bolognese, dell'Unione Reno-Galliera (composta dai comuni di Argelato, Bentivoglio, Castello d'Argile, Castel Maggiore, Galliera, Pieve di Cento, San Giorgio di Piano, San Pietro in Casale (sede amministrativa dell'Unione), istituita nel 2008 ente pubblico territoriale dotato di personalità giuridica, per la gestione associata di alcuni servizi pubblici: polizia municipale, protezione civile, servizi alle imprese, servizi informatici, gestione del personale, pianificazione territoriale e urbanistica.
Inoltre è stato da poco inserito nella Città Metropolitana di Bologna, istituita nel 2014 per effetto di una legge che si proponeva in sostanza di superare e sostituire la Provincia, ente amministrativo intermedio secolare che si voleva abolire definitivamente con una legge di riforma costituzionale che non è però stata approvata col recente referendum del 4 dicembre 2016. A tutt'oggi, pur in una situazione di incertezza normativa generale e amministrativa di ambito provinciale, resta il fatto che il nostro, insieme agli altri 55 comuni dell'ex Provincia, è parte della città metropolitana, la cui massima autorità è il sindaco di Bologna, coadiuvato da un Consiglio metropolitano eletto a suffragio ristretto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei 55 Comuni.
Prima di pensare ad imbarcarsi in una ipotesi di fusione di Comuni andrebbe fatta innanzitutto una verifica del funzionamento dei suddetti nuovi enti, Unione e Città metropolitana, valutando costi e benefici reali e problemi emersi.

La prudenza si rende necessaria anche alla luce del fallimento o comunque della cancellazione di tante aggregazioni territoriali sperimentate in passato, a cominciare dai Comitati Comprensoriali istituiti dalla Regione nel 1975, come organi intermedi di pianificazione, tra i quali il Comprensorio della Pianura bolognese con sede a S. Giorgio di Piano a cui il nostro comune fu aggregato. Istituzione abbandonata nel 1984, con il trasferimento delle sue funzioni alla Provincia e a nuove Assemblee di comuni. Parallelamente si istituirono le Comunità montane, e poi i Consorzi Socio Sanitari e i Distretti Scolastici, che pure avevano una loro motivazione logica derivata da esigenze di coordinamento funzionale per settori specifici (servizi sanitari, scuole..). Ma anche queste aggregazioni sono state cancellate e sostituite da altre.
Poi sono subentrate le Unità Sanitarie locali, i cui ambiti e confini territoriali sono stati cambiati più volte, dalla Usl 30 di Cento alla Usl 25 di S. Giorgio di Piano, per confluire infine nella attuale Azienda sanitaria di Bologna con 46 comuni.
Mi pare che si sia perso, o sprecato, già abbastanza tempo e risorse in questo fare e disfare aggregazioni territoriali, senza una approfondita verifica di costi e benefici, partendo da disegni verticistici e mai da esigenze di base, zigzagando una volta verso il decentramento e una volta verso la centralizzazione e le unificazioni.

Per inciso, ricordo anche che già ci fu un tentativo di annessione del Comune di Castello d'Argile a quello di Pieve nel 1928-29; tentativo prontamente respinto dal Podestà del tempo e dai cittadini. Anche l'ipotesi di unificazione di Galliera con S.Pietro in Casale, di cui si è parlato negli anni scorsi, era caduta nel dimenticatoio per le difficoltà e resistenze emerse.

QUALE FUSIONE, E PERCHE'?
Ora si ipotizza addirittura una fusione di 4 comuni sulla falsariga della legge nazionale del 2014 che istituiva le città metropolitane e dava anche indicazioni e incentivi economici alle fusioni di Comuni , recepite poi nel 2015 da legge regionale n. 13 dell'Emilia-Romagna, riordinando precedenti norme in
materia del 1996 e del 2012, in una prospettiva di possibile risparmio dei costi delle amministrazioni e dei servizi pubblici.
Ora posso capire la opportunità o la necessità di unire anche sul piano istituzionale Comuni molto piccoli, con un numero ridotto di abitanti, talora in fase di spopolamento, e non più in grado di sostenere una propria amministrazione autonoma.
Ma non mi sembra che tale necessità possa riguardare Castello d'Argile e gli altri Comuni della proposta. Faccio rilevare che, dalle statistiche più recenti, risulta questa situazione: 

- Comune di Castello d'Argile: 6.552 abitanti, su un territorio di 29 km quadrati, con una densità media di 225 abit. per kmq ; costituita da capoluogo Argile e una frazione, Mascarino-Venezzano.

- Comune di Pieve di Cento: oltre 7.013 abitanti su un territorio di 15,94 kmq, con una densità di 439 ab. per kmq; nessuna frazione.

- Comune di Galliera: 5.400 abitanti circa su un territorio di 37 kmq, con una densità di 146 abit. per kmq; 3 frazioni: S. Venanzio (capoluogo), Galliera vecchia, San Vincenzo.

- Comune di San Pietro in Casale: 12.200 abitanti circa su un territorio di 65 kmq, con una densità di 185 ab. per kmq.; 10 frazioni: capoluogo, Asia, Cenacchio, Gavaseto, Maccaretolo, Massumatico, Poggetto, Rubizzano, S. Alberto, S. Benedetto,

Anche guardando, oltre ai dati, la carta geografica, non si capisce come questa aggregazione possa costituire un “ambito ottimale”, se non per una mera contiguità di confini, valida solo per alcuni e non per altri, distanti e senza alcun rapporto relazionale. Senza contare che le relazioni e la comunanza di servizi ci legano maggiormente a Comuni che resterebbero fuori dalla fusione, come ad esempio il contiguo Voltareno e Argelato capoluogo, e Bentivoglio e Cento (FE) per la presenza di ospedali frequentati abitualmente dai cittadini di Castello d'Argile.

Ambito ottimale” di ogni Comune è quello esistente e ormai consolidato da un lungo percorso storico; e non tanto per un chiuso arroccamento campanilistico e municipalistico fine a se stesso, ma perché l'istituzione Comune è più che mai oggi, in tempi di globalizzazione, emigrazioni e immigrazioni, con sradicamento di tante fasce di popolazioni, l'unico baluardo che può tentare di mantenere o far recuperare una vita di comunità, necessaria per bilanciare il senso di estraniamento e distacco dei cittadini da istituzioni lontane e sorde ai loro bisogni.

Non vanno sottovalutati anche i problemi burocratici e le complicazioni che sorgerebbero dal cambio di denominazione dei 4 comuni, per le successive modifiche e aggiornamenti necessari per indirizzi, su atti demografici, catastali e notarili di proprietà che si trascinerebbero per anni.

Detto questo, fatto salvo il Comune come istituzione autonoma e con propri rappresentanti eletti, si faccia pure ogni sforzo che risulti utile per coordinare o unificare singoli servizi che, con le dovute verifiche, possano consentire risparmi senza dequalificarsi o scomparire.
L'incentivo economico alla ipotizzata fusione, per quanto assolutamente vago e non quantificabile preventivamente, da spalmare sul territorio più vasto, deriverebbe comunque da denaro pubblico erogato da Regione o Stato, quindi sempre dalle tasche dei cittadini, e vanificherebbe i presunti risparmi in sede locale.
Per diminuire davvero i costi della politica, a livello generale e locale, si taglino o si impediscano eventuali ruberie, corruzione, abusi, inefficienze, sprechi per mancati controlli, ecc., ma non i costi del regolare funzionamento della democrazia (lo stipendio di 3 sindaci e i modesti compensi dei consiglieri, lo stipendio dei dipendenti comunali...), se contenuti in ambiti ragionevoli e giustificati.
Il gioco non vale la candela, perché ciò che si sacrificherebbe con la cancellazione dei Comuni è molto più importante e irreversibile. 
Magda Barbieri